‘Multilingualism in a global Web’ is the theme for October’s IndieWeb Carnival , and our host Riccardo has proposed one additional rule for the month - if possible, to write the post (also) in a language different from English. So, for this time (probably) only, here is my post in my mother tongue, followed by an English version.
Se qualcuno è passato da queste pagine l’anno scorso, avrà forse notato che l’idea originale era proporre un blog bilingue: la scelta stessa di utilizzare Hugo come CMS è derivata da questa intenzione originale, ed in fase di preparazione ho dedicato non poco tempo a far sì che un lettore potesse passare facilmente da una versione all’altra. Ho anche accarezzato l’idea di aggiungere una terza lingua, come ’esercizio’.
Pochi mesi e molto ‘blocco dello scrittore’ più tardi, ho realizzato due cose: primo, già trovare le energie per scrivere in una lingua è complicato, figurarsi scrivere in due lingue diverse (anche volendo ridurre la stesura nella seconda lingua ad una rifinitura di una traduzione sommaria via ChatGPT, metodo che comunque trovavo disonesto); secondo, in questo momento, scrivere in italiano mi viene proprio difficile.
È paradossale: non dovrebbe la mia madrelingua essere la maniera più naturale di esprimersi? Lo è. Ma ci sono due considerazioni aggiuntive.
Uno, non vivo in Italia da più di dieci anni, e l’italiano non è una lingua ufficiale del Paese dove vivo, né una ’lingua franca’ sul posto di lavoro. Non è quindi la lingua che utilizzo più di frequente, e forse neanche la seconda. Questo vuol dire che mi ritrovo più spesso a pensare in Inglese che in italiano. Mi ritrovo addirittura a sognare in inglese più frequentemente che in italiano. In questo momento stesso, mentre scrivo questo post, le mie frasi prendono forma, in primis, in inglese.
Due, scrivere in inglese mi fa sentire meno vulnerabile. Meno spontaneo, forse, probabilmente più freddo e potenzialmente farraginoso, ma protetto da uno strato di distacco che mi fa pensare due volte alle cose che voglio dire, ma mi fa anche filtrare potenziali ‘hot takes’ (come si dice in italiano? Opinioni a caldo?) delle quali mi potrei pentire.
Insomma, la scelta di concentrarsi sull’inglese è sostanzialmente pratica, e per me fa la differenza tra un blog monolingue con pochi post, ed un blog bilingue mai aggiornato. Non è, comunque, una situazione ideale. A volte mi sembra di portare dei pesi alle caviglie che mi rallentano, o che mi impediscono di saltare (esprimermi) come vorrei. Ma d’altro canto, scrivere in inglese apre le porte a potenziali amici, vicini e lontani, ora come e più che nei decenni scorsi (ogni tanto mi domando cosa facciano adesso i miei amici di penna di trent’anni fa… Daniel, con il quale condividevamo una passione per i videogame della serie Ultima? Pitanjali, che per prima mi parlò di Friends?).
E, in fondo, è una restrizione totalmente arbitraria e auto-imposta. Un approccio ‘completamente bilingue’ non è un obbligo, così come non lo è una netta separazione tra i post in italiano ed i post in inglese. Potrei semplicemente pubblicare, a piacimento, un po’ in una lingua e un po’ nell’altra. Via, perfino avere un unico feed RSS. Multilinguismo spontaneo. I’m free to do what I want, any old time. La libertà dell’essere indipendenti.
Alcuni dei blog che seguo usano questo approccio. Da lettore, apprezzo certamente la ricchezza portata dalla coesistenza di diverse lingue nello stesso luogo. Così come la apprezzo sul lavoro. Ferma restando la libertà del blogger di scegliere come comunicare al mondo le proprie idee, però, mi chiedo se sia una modalità efficace: se nella vita reale una persona parla in una lingua che non conosco, do per scontato che la comunicazione non sia rivolta a me; se in un feed RSS la maggior parte dei post è in inglese, e qualcuno in una lingua che non capisco, immagino che questi ultimi siano di ‘interesse locale’ e (a meno che non apprezzi gli scritti di quel.la blogger tanto da copiare/incollare il contenuto in Google Translate) passo oltre. Saranno ‘bonus track’ per i lettori diversamente poliglotti.
Da ‘autore’, avrei la sensazione di escludere volontariamente una parte dei miei potenziali lettori: al di là di una certa soglia, se non avessi una chiara distinzione - nelle pagine web e nel feed - tra i post in diverse lingue, avrei l’impressione di limitare il mio ‘pubblico’ alle persone che capiscono tutte le mie lingue. Chi ne comprende solo una, si stancherà di fare manualmente la raccolta differenziata dei post. Ma allora il multilinguismo spontaneo del blog sarebbe un vantaggio solo per me, non per i lettori.
Peraltro non credo che le traduzioni automatizzate siano di supporto al multilinguismo: agevolano sicuramente la circolazione delle idee, ma con il risultato di ‘rielaborare’ la ricchezza della lingua originale in qualcosa di diverso, la cui qualità e fedeltà è da dimostrare.
Il monolinguismo dei miei post quindi, è, sì, auto-imposto, ma, nelle condizioni attuali, la soluzione nella quale mi riconosco di più.
If some of you readers visited this domain last year, you may have noticed that my original idea was to create a bilingual blog: the very choice of using Hugo as a CMS came from this original intention, and during the setup phase I spent quite some time ensuring that a visitor could easily switch from one version to another. I even entertained the idea of adding a third language, as an ‘exercise.’
A few months and a lot of ‘writer’s block’ later, I realised two things: first, finding the energy to write in a single language is not easy, let alone writing in two different ones (even considering being assisted by ChatGPT to draft a first version of the second language post - a method I find insincere and that I’m using anyway for this bilingual post); second, right now, writing in Italian doesn’t come as easy it should for me.
It’s paradoxical: shouldn’t my mother tongue be the most natural way to express myself? It is. But there are two additional considerations.
One, I haven’t lived in Italy for more than ten years now, and Italian is not an official language in the country where I live, nor is it a ‘lingua franca’ at work. So, it’s not the language I use most frequently, and perhaps not even the second most used. This means that I find myself thinking in English more often than in Italian. I even find myself dreaming in English more frequently than in Italian. Right for this post, as I was writing the Italian original version, I felt the sentences taking shape, first and foremost, in English.
Two, writing in English makes me feel less vulnerable. Less spontaneous, perhaps, probably colder and potentially more convoluted, but protected by a layer of detachment that makes me think twice about the things I want to say, but also helps me filter out potential ‘hot takes’ that I might regret later.
In short, the choice to focus on English is essentially a practical one, and makes the difference between a single-language blog with a few posts, and a bilingual blog that never gets updated. It’s not, however, an ideal situation. Sometimes it feels like carrying weights around my ankles that slow me down or prevent me from jumping as high as I’d like. But on the other hand, writing in English opens doors to potential friends, near and far, now more than ever before (I sometimes wonder what my pen pals from thirty years ago are doing now… Daniel, with whom we shared a passion for the Ultima video game series? Pitanjali, who first told me about Friends?).
And, ultimately, it’s a completely arbitrary, self-imposed restriction.
A ‘fully bilingual’ approach is not an obligation, nor is a strict separation between posts in Italian and posts in English.
I could simply publish, as I please, sometimes in one language and sometimes in the other one. Even have a single RSS feed. Spontaneous multilingualism. I’m free to do what I want, any old time.
It’s the freedom of being independent.
Some of the blogs I follow use this approach.
As a reader, I certainly appreciate the richness brought by the coexistence of different languages in the same place. Just as I do at work.
That said, while I support the freedom of the blogger to choose how to distribute their ideas to the world, I wonder if it’s an effective method: in real life, if someone speaks a language I don’t understand, I naturally assume that the communication isn’t meant for me.
If, in an RSS feed, most of the posts are in English and a few in a language I don’t understand, I imagine the latter are of ’local interest’ and (unless I like the blogger’s writing so much that I copy/paste the content into Google Translate) I will skip them. They’ll be ‘bonus tracks’ for readers that are polyglot in a different way than me.
As an ‘author’, I’d feel like I’m voluntarily excluding part of my potential audience: beyond a certain ratio, if I didn’t have a clear distinction—on my web pages and in my feed—between posts in different languages, I’d feel like I’m limiting my ‘audience’ to people who understand all my languages. Those who only understand one would get tired of manually sorting through the posts. In that case, the spontaneous multilingualism of the blog would be an advantage only for me, not for the readers.
Furthermore, I don’t believe automated translations support multilingualism: they certainly reduce the barrier to the circulation of ideas, but through ‘reworking’ the richness of the original language into something different, whose quality and fidelity are questionable (and I did make a lot of changes to the ChatGPT draft of this English version).
So, the monolingualism of my posts is, yes, self-imposed, but, given the current conditions, it’s the solution I’m most comfortable with.